Società Anonima Cooperativa Alimentaria "Camillo Cavour" di Tollegno
Tipologia Ente
Intestazione di autorità
- Intestazione
- Cooperativa "Cavour"
Date di esistenza
- Data di istituzione/costituzione
- 21 marzo 1888
- Data di soppressione/cessazione
- circa 1975
Natura giuridica
- Qualifica
- società anonima
Luoghi di attività
- Luogo
- Tollegno, via Garibaldi 70
Storia istituzionale
- Breve storia della Società Anonima Cooperativa Alimentaria "Camillo Cavour" di Tollegno
I locali che oggi ospitano il Centro d’Incontro un tempo erano la sede di una cooperativa di consumo che fu attiva in Tollegno per quasi un secolo lasciando un piccolo ma interessante fondo documentario, che ora è custodito presso la Biblioteca Comunale, dal quale si può trarre la storia della società stessa. In queste poche righe ho cercato di ricostruire la parte più antica della esistenza della cooperativa, quella che è scomparsa o quasi dalla memoria vivente del paese, riportando al presente un lungo momento di esperienza comune, una serie di nomi che nei più anziani faranno sicuramente affiorare il ricordo di volti noti e una testimonianza di vita in un passato che velocemente si allontana.
I documenti in questo intento hanno la parte del protagonista: ben poco c’è da aggiungere, da supporre e il commento ai fatti riportati dalle carte serve solo a legare un discorso comunque già chiaro di per sé, e sempre aperto ad ogni integrazione. La documentazione si compone di molti fascicoli, spesso di singoli fogli sciolti, ma anche di diversi registri (libri matricolari, libri paga, registri di verbali amministrativi, inventari, ecc…) che sono vere e proprie miniere di informazioni, senza contare che trasmettono un fascino particolare che è quello della scrittura manuale in bella grafia, patrimonio che va dilapidandosi nell’era informatica. Un invito a curiosarci dentro è d’obbligo anche perché ci sono molte più notizie di quante ho potuto condensare qui di seguito.
Non possediamo più l’originale dell’atto costitutivo della cooperativa ma un paio di documenti di poco successivi ci raccontano come andarono le cose. Ad ogni nuovo socio veniva consegnato un libretto che conteneva lo “Atto Costitutivo e Statuto della Società Anonima-Cooperativa-Alimentaria sotto il titolo di Camillo Cavour fra gli Operai di Tollegno”. Uno di quei libretti, consegnato a Lorenzo Giachetti di Tollegno il 20 marzo 1910, ci informa che la cooperativa nacque ufficialmente il 21 marzo 1888. Quando l’8 aprile di quell’anno i soci si presentarono di fronte al notaio Camillo Guelpa di Ronco per “…sottoporre tale società alle norme del vigente Codice di Commercio intorno alle Società Cooperative Anonime…” il rogatore premise “…che nell’intendimento di provvedere a sé ed alle loro famiglie colla maggiore economia possibile i generi di prima necessità, molti fra gli abitanti di questo Comune di Tollegno nel giorno 21 marzo testè scorso si radunarono in numero di venti individui in questa sala del locale del Circolo Cavour posto in via Pozzo e siansi fra loro uniti in società per aprire un magazzino di spaccio fra i soci di detti generi…”. Non è stato possibile localizzare con precisione il luogo di quella riunione ma nel medesimo libretto (stampato a Biella dalla tipografia Antonio Chiorino di via San Filippo 10 in quello stesso 1888) vengono riportati i nomi e alcuni dati dei soci fondatori.
Probabilmente il promotore dell’iniziativa fu Giovanni Battista fu Germano Germanetti che faceva il tessitore e che venne immediatamente eletto come primo presidente; parimenti furono subito incaricati il vice-presidente Carlo Comerro contadino, i quattro consiglieri Giacomo Acquadro tessitore, Giacomo Craveja contadino, Antonio Ferro tessitore, Giacomo Janno (che fu anche designato come segretario) e il cassiere Bartolomeo Cinguino tessitore. Gli altri fondatori furono due altri Cinguino, Germano e Giacomo , il primo tessitore, il secondo sarto; ben cinque Coppa, due Gaspare, due Germano e Pietro, tutti tessitori tranne uno che lavorava la terra, ancora due operai del telaio i Ferro Germano e Giovanni, il filatore Bartolomeo Germanetti, il falegname triverese Costanzo Giardino, Andrea Janno contadino e il tessitore Gerolamo Ugliengo.
Quando il 7 maggio 1888 si erano sbrigate tutte le incombenze burocratiche i venti primi soci avevano un capitale sociale di 1000 lire suddiviso in azioni da 50, una caduno, e uno statuto articolato il 61 articoli. Il primo è significativo per cogliere il tenore e l’orientamento della neonata istituzione: “E’ costituita una Società Cooperativa Alimentaria fra gli operai di Tollegno allo scopo di fornire un Magazzino di previdenza per la distribuzione ai soci di qualunque articolo di consumo necessario a la vita, al prezzo minimo sia a pronti contanti che a credito. Possono far parte della Società in qualità di soci tutti gli artisti (ossia artigiani, N.d.A) e contadini di Tollegno ed ivi domiciliati…”. Nel resto del regolamento vengono specificate le direttive amministrative e le condizioni di esercizio della cooperativa, le norme comportamentali dei soci, con una certa attenzione alla loro moralità e rispettabilità, e un particolare paragrafo per il ruolo e i compiti del magazziniere.
A questo punto della storia, cioè all’inizio, devo dire che il primo dubbio che sorge riguarda la primitiva sede del deposito e di conseguenza dello spaccio. In effetti tutti ricordano la cooperativa ‘Cavour’ situata nello stabile del Centro d’Incontro ma, come vedremo, l’insediamento in quei locali fu decisamente successivo alla fondazione. Propendo per l’idea che almeno inizialmente il venti soci stabilirono il loro negozio cooperativo nel suddetto circolo già intitolato al conte Benso, anche se ben presto dovettero fare i conti sia con il relativo successo della loro iniziativa sia col conseguente incremento di approvvigionamenti necessari, ovvero con la mancanza di spazi adeguati a gestire l’attività. Il momento in cui i destini della cooperativa e dell’edificio a cui solitamente la si associa risulta essere l’11 maggio 1908. Erano trascorsi esattamente venti anni dalla fondazione.
Per dovere di cronaca e per rispetto della fonte documentaria arrivata fino a oggi, mi permetto di dire un paio di cose sullo stabile in questione. Proprio due contratti immobiliari ad esso inerenti (il primo del 1872, il secondo del 1875) sono le carte più antiche dell’intero fondo. Per farla breve: l’antico fabbricato ha di particolare il fatto di avere nello scantinato un forno, forno che viene documentato in quei paraggi (non so se fosse esattamente quello ma è assai probabile) fin dai tempi delle confraternite del Santo Spirito e di San Defendente, cioè circa 4-500 anni fa, e i passaggi di proprietà dal 1872 in poi riguardano panettieri. Il primo fu Carlo Antoniotti di Pralungo e di sua moglie Lucia Guglielmino, poi venne (non è riportato quando) tale Guerrino Paracchi prestinaio sordevolese che vi faceva il pane almeno dal 1903. Quale aspetto avesse l’edificio ce lo suggerisce Lucia moglie del pralunghino Antoniotti quando ne ipotecò l’esatta metà a Giovanni Ottino nel 1875 per coprire un debito del marito: “… casa civile e rustica elevata a tre piani situata ne cantone del Pozzo, composta di quindici membri con cantina sotterranea e di rustico…” più un cortile da 100 metri quadri.
Eugenio Fiorina residente in regione Serra, presidente della cooperativa nel 1908, stipulò col Paracchi una specie di doppio contratto. Alla società alimentaria il panettiere affittava per nove anni, a 420 lire l’anno, “…tutto il piano terreno, sottostante cantina con forno e locali attigui, una camera al secondo piano, il locale ad uso legnaia al primo piano, con tutto il cortile ed orto della sua casa…”. A sua volta, evidentemente per le convenienti condizioni d’affitto, la cooperativa tramite contratto di locazione d’opera per nove anni “…affida al Signor Paracchi Guerrino il servizio di distribuzione delle sue merci mediante il corrispettivo di lire quattro e centesimi cinquanta per ogni cento lire di merce distribuita…”. Il 4 aprile 1910 il presidente Giustino Ferro ampliò l’affitto a tutta la casa del Paracchi che aveva abbandonato il suo incarico in seno alla società, pur riservandosi il diritto di essere nuovamente assunto in qualunque momento. Interessante notare che in quel mentre si faceva concreta la potabilizzazione della zona e che la cooperativa, costretta a rifornirsi d’acqua nel pozzo privato di Quinto Acquadro, fece presente al locatore i suoi doveri in merito all’allacciamento dello spaccio alla rete comunale.
Per legare definitivamente la ‘Cavour’ allo stabile bisogna attendere il 1916. Scadendo il contratto di locazione il presidente Germano Giachetti fece una prevedibile offerta al vecchio Paracchi, che nel frattempo si era stabilito ad Ivrea, per acquistare l’edificio. Il prestinaio tentenna da maggio ad ottobre, tira sul prezzo con la scusa del solito cugino a cui aveva già promesso la casa, poi cede scandendo in una sua lettera la cifra di 14.500 lire, l’ultimo rilancio della cooperativa. Non mi è chiaro però se e come si modificarono le cose perché il notaio Cesare Craveja, che qui fa il suo ingresso ufficiale nella storia della società, nel suo atto del giorno di natale del 1916 attesti che la cifra della vendita fu di sole lire 7000. Che già ai tempi si omettesse di denunciare onestamente?
Durante il periodo di nove anni prime che si perfezionasse l’acquisto dello stabile la cooperativa fu attiva sotto diversi punti di vista. Anzi proprio l’aver trovato un locale finalmente idoneo all’allestimento del magazzino sociale, che nella preesistente sede non doveva essere del tutto funzionale, diede nuovo impulso ai soci. Inoltre la possibilità di avere un forno in affitto convinse il presidente Angelo Janno ad affermare nella adunanza straordinaria (i soci erano già aumentati a 26) dell’11 dicembre 1907 “…che si sono prese le disposizioni necessarie per la costituzione del magazzino alimentario, del forno cooperativo per la fabbricazione del pane, e la vendita dei commestibili…”, naturalmente nella sistemazione che la ‘Cavour’ avrebbe avuto dal maggio dell’anno successivo.
Sempre in quegli anni tra il 1908 e il 1916 si verificò un fatto che dalla nostra lontana prospettiva può far sorridere ma che allora dovette risultare un dramma. La brutta storia riguarda un certo Biagio Stampini che nel febbraio del 1908 svolgeva per la società il delicato compito del magazziniere, incarico che già nello statuto aveva un capitoletto a parte a sottolineare quale responsabilità aveva la persona che ne ricopriva la carica. Di fronte a tutti i soci il presidente Eugenio Fiorina il 13 agosto 1908 così si espresse riguardo all’accaduto: “…Il Presidente è dolente dell’incidente successo a questa Società per la fuga del magazziniere Stampini Biagio il quale lasciò un vuoto di cassa e merci di £ 3358,74…”. Un capitale! Il Fiorina con la rabbia di chi è stato menato per il naso si fece carico di spiegare ai presenti “…che l’ammanco risultante a carico dello Stampini fu cagionato da sottrazioni continue che datano fin dal mese di febbraio, epoca in cui egli prese prese possesso, facendo sparire le fatture dei fornitori di merce che egli vendeva senza darsi carico…”. Solo un preciso inventario eseguito evidentemente dopo la sospetta sparizione del magazziniere nel mese di giugno rivelò i cinque mesi di frode e l’ammanco. Fortunatamente la società nell’affidare la gestione del magazzino al fuggitivo si era fatta rilasciare un atto fideiussorio dallo sventurato cognato dello Stampini. Così il presidente potè tranquillizzare i soci dicendo che “…l’amministrazione è garantita dal rimborso del credito dell’ex magazziniere Zanone Francesco il quale è vincolato ad una scrittura di obbligazione…”. Quando il Fiorina si accorse della frode contattò subito lo Zanone che con un biglietto imbarazzato e disperato diceva di non credere alla fuga del cognato. Lo stesso fideiussore non presenziò all’inventario che lo doveva inguaiare e portare in tribunale. Come si è già capito si sviluppo una causa che si chiuse nel giugno del 1909 quando l’avvocato della parte lesa, Prospero Bertetti, quietanzò i suoi assistiti dopo essere riuscito a farli risarcire dal povero Zanone per una quota patteggiata di ‘sole’ 2000 lire.
Memori dell’accaduto dallo statuto venne scorporato un “Capitolato del Magazziniere” che nel 1911, per tre anni, venne firmato da Bernardo Guglielmino. L’articolo 19 la dice lunga su come la ‘Cavour’ avesse appreso la lezione dello Stampini: “…E’ assolutamente vietato al magazziniere l’alterazione delle derrate, consegnategli, L’ammanco di peso nella distribuzione, l’aumento arbitrario di prezzi stabiliti, i modi scortesi verso gli amministratori e funzionari della società o verso i soci, donerà diritto all’amministrazione di infliggere al magazziniere una multa non minore di lire venti…”.
Ritengo che gli anni successivi al 1916, malgrado la guerra e le difficoltà da esse derivate, per la cooperativa furono un momento di crescita. Forse proprio in virtù delle ristrettezze belliche la cooperativa poteva dimostrarsi un elemento di sostegno, e non solo per i prezzi calmierati delle derrate spacciate. Dal tono delle carte ho avuto fin da subito l’impressione che quelle persone probabilmente quasi tutte di umili condizioni avessero le idee chiare, alla stregua dei fondatori, e che la loro coesione fosse forte al punto tale da sviluppare una sorte di orgogliosa ambizione societaria che non tardò a mostrare i suoi effetti pratici.
Quando gli echi del fronte erano prossimi a spegnersi la società si concesse il lusso di richiedere alla prefettura di competenza, quella di Novara, l’autorizzazione per la vendita (ma non l’eventuale produzione) di dolci. Il 3 maggio 1918 il prefetto Olivieri concesse alla ‘Cavour’ di vendere “…Cioccolato in tavolette liscie di forma piana fabbricate con gli stampi esistenti del peso minimo di grammi 50 purchè non combinato con altri prodotti ad esempio nocciuole e mandorle se intere; cioccolato in tazza, in polvere, in pacchetti compressi… E’ vietata l’esposizione dei dolciumi sovra indicati nelle vetrine…”.
E alla fine del 1922 ecco i grandi lavori eseguiti nella sede.
La disponibilità economica per attuare le opere che vedremo dimostra che le finanze sociali erano in buona salute. Il capomastro Bartolomeo Antoniotti consegnò una parcella complessiva per i lavori di muratura nella sede di 12700 lire circa: si intervenne sullo stabile dal sotterraneo che custodiva il forno alle grondaie, si sostituirono porte e finestre, si sistemarono le vetrine, si rinforzarono molte volte e praticamente tutti i muri vennero ricciati. Il tutto a 3 lire l’ora per i muratori e 1 lira e 80 centesimi per i ‘bocia’. Il 26 dicembre 1922, oltre a pagare 1700 lire circa al geometra Giovanni Ottino per la direzione dei lavori, all’Antoniotti versarono 951 lire aggiuntive per le opere di posa del peso pubblico (per l’esercizio del quale la società si era iscritta all’Ufficio Metrico di Biella) che la cooperativa aveva acquistato dalla ditta Arecchi di Biella. Accompagnano questi lavori molte fatture che richiamano nomi noti del commercio biellese (Giuseppe Brusasca di Biella per cementi e calce, Marcellino Perazio di Andorno per armature e poutrelles, Giacomo Vignazia per cristalli e vetri, Mosca e Fogliano per ferramenta varia) e dell’artigianato tollegnese (Augusto Ferro e figlio per porte e stibbiate, Andrea Craveia per impianti elettrici, Giovanni Antoniotti ed Alessandro Cinguino conducenti per trasporti materiali con uno o più cavalli). Ovviamente fuori i trabuccanti dentro gli imbianchini. La ditta Tosi e Antonello percepì il 22 dicembre 1922 a saldo dei lavori di verniciature varie a minio e biacca un totale di 1600 lire, 75 delle quali solo per la scritta sopra le vetrine, “Cooperativa Camillo Cavour Forno e magazzino alimentario”. Anche loro vennero coordinati dall’onnipresente geometra Ottino.
Chi sa far di questi conti si renderà conto di quante sarebbero oggi quelle 17.000 lire sborsate tutte insieme in quel dicembre.
Quel forno rimesso a nuovo doveva lavorare parecchio. Tanto che si rese necessario redigere un preciso regolamento per gli operai addetti alla panificazione. Si parla di più panettieri e di almeno due garzoni addetti alle macchine impastatrici nel regolamento del 15 settembre 1923. L’articolo 3 sentenzia che “…I Panettieri si impegnano di eseguire normalmente la produzione del pane e dei grissini in conformità del fabbisogno richiesto dal Direttore del magazzino…” mentre il dodicesimo si occupa dell’eventuale ubriachezza di un prestinaio: alla prima sbronza in pastino una bella multa, se recidivo il licenziamento. Due dei destinatari di quel regolamento furono Giorgio Zorzi e Pietro Tamaroglio che avremo modo di incontrare ancora.
Gli anni Trenta arrivarono provocando alcuni cambiamenti rilevanti soprattutto in ambito contabile e finanziario. Per allinearsi con le normative vigenti i soci convenuti nell’adunanza del 23 marzo 1930 approvarono (non credo che avrebbero potuto evitare di farlo) all’unanimità l’ordine del giorno numero 5 dove si prospettava l’aumento del capitale sociale incrementando ogni singola azione dalle originarie 50 alle deliberate 200 lire. Spettò ancora al solito notaio Cesare Craveja formalizzare la modifica statutaria.
La cooperativa a questo punto risulta essere una struttura articolata e ‘ricca’. Ricchezza che rispecchia una quantità di lavoro sicuramente importante. Un libro matricolare del 1936 ci informa che nel periodo 1922-1939 vennero occupate prima una (Maria Cinguino) poi altre tre commesse (Corinda Janno, Adelia Fiorina, ed Angela Cinguino), mentre Alfredo Coppa rimase il magazziniere ininterrottamente dal 1929 per gli undici anni successivi.
Una curiosità. La prefettura di Vercelli, questa volta, concesse un permesso di fondamentale valore storico: dal 20 ottobre 1930 i salumieri della cooperativa avrebbero potuto “…mescolare nella preparazione degli insaccati carni bovine e suine…”.
Sempre nel 1930 i panettieri e le commesse vennero assicurati presso la ‘Cassa Nazionale Malattie’ e negli anni successivi regolarmente registrati presso lo ‘Istituto Nazionale Fascista Infortuni’.
A distanza di circa 10 anni dalla conclusione dei lavori che diedero ai locali e all’edificio in genere l’aspetto che in buona parte ha ancora oggi, i soci della cooperativa ‘Cavour’ decisero che era tempo di sistemare il piano interrato dove funzionava il forno e, soprattutto, di dotare lo stabile di scale che permettessero di scendere nel pastino e di raggiungere il primo piano. A questo proposito nell’agosto del 1933 venne prodotta una pianta planimetrica del fabbricato per consentire una adeguata progettazione dei lavori. E' superfluo dire che fu il geometra Ottino a consegnarci un pezzo di storia disegnata: grazie a quel rilievo adesso possiamo sapere come erano disposti i vari vani e la loro funzione. Verso piazza San Rocco c’era come oggi il passaggio sotto l’archivolto che immetteva in un cortile quasi tutto riparato da una tettoia. Il lato nord era tutto a vetrine che davano su via Umberto (il numero civico era il 62 poi 68, e la via corrispondeva ovviamente all’attuale via Garibaldi). I rimanenti lati ad, est e a meridione, confinavano con le proprietà del macellaio Giovanni Ferro, ovvero dove si trova ora la Biblioteca Comunale.
Per tutta la lunghezza delle vetrate si sviluppava il magazzino-negozio; per quelli della mia generazione: se ci fossimo entrati a quei tempi ed avessimo avuto il permesso di visitare la sede per intero avremmo incontrato all’estrema sinistra il vano retrobottega che fungeva anche da cucina, comunicante con esso il locale salumeria e la rampa delle scale per scendere in cantina da dove avremmo sentito salire nitidamente la consolante fragranza del pane. La parte esterna sotto la tettoia comprendeva una latrina, una cabina per il telefono pubblico e un ripostiglio. Proprio al di sotto di tale ripostiglio fatto come un quarto di cerchio si sarebbe dovuta ricavare la scala che avrebbe portato al forno. Quel forno sarebbe stato diverso, più grande del precedente, estendendosi verso est, cioè sotto il retrobottega e sotto la salumeria, secondo il progetto del geometra Federico Delpiano di Biella. Manca purtroppo nella pianta dell’Ottino proprio il disegno dello scantinato quindi è difficile immaginare l’aspetto originario, anche se si può dire che si trovava al di sotto del negozio. Su quella base lavorò il Delpiano e dei suoi progetti i soci conservarono qualche schizzo, il disegno definitivo del pilastro su cui sarebbe andato a scaricarsi tutto il peso delle nuove volte, una proposta a due varianti per la sistemazione del forno, una lo avrebbe addirittura posizionato all’altezza del primo piano dello stabile della cooperativa. Ma gli amministratori scelsero di mantenere il forno sotto il livello del suolo approvando le idee del geometra Delpiano.
Un anno dopo, il 16 agosto del 1934, venne stesa la “…Scrittura Privata tra la Società Cooperativa “Camillo Cavour” con sede in Tollegno ed i signori: Coppa Pietro fu Giovanni Battista = Coppa Gaspare fu Gaspare e Janno Lorenzo fu Celeste, per la sistemazione del fabbricato della Società Cooperativa…”. Il presidente Antonio Fiorina, figlio di Eugenio già più volte suo predecessore alla guida della società, affidò i lavori a tre muratori di fiducia in quanto membri della cooperativa ma si premurò comunque di far loro firmare il contratto di cui sopra nel quale si leggono alcune note caratteristiche proprie delle modalità delle opere da compiersi. Il pilastro elaborato dal Delpiano, quello che avrebbe retto la portata al centro del soffitto voltinato del nuovo locale forno, “…sarà eseguito con cemento fuso di Pola dosato con 350 KG di cemento per metro cubo d’impasto…i mattoni dovranno essere convenientemente innaffiati prima dell’uso…” e “…il lavoro deve essere eseguito in perfetta regola d’arte e secondo i disegni e gli ordini che verranno opportunamente impartiti dal Direttore dei lavori (naturalmente l’Ottino) o da un suo rappresentante a ciò delegato e nel caso che il Direttore dei lavori giudicasse opportuno di lavorare di notte anziché di giorno per non intralciare il commercio nello spaccio, ciò dovrà farsi senza alcuna indennità speciale essendo già tutto previsto nel prezzo avanti indicato…”, cioè 3 lire e 20 centesimi l’ora per i muratori e 2 lire e 30 per i manovali.
Lasciamo i muratori alle prese con le difficoltà del loro mestiere e con le pretese degli amministratori della ‘Cavour’ e ci ritroviamo negli anni ’40. In effetti la sequenza dei documenti ha a questo punto una discontinuità e a seguir le carte si riprende il discorso nel 1941. A dire il vero il primo documento di quegli anni non ha data, ma credo sia proprio del ’41, almeno confrontando i registri e i libri matricolari, ed è un semplice elenco dei soci. I fondatori erano 20, in quell’elenco invece il progressivo si ferma a216! La cooperativa ‘Cavour’ era divenuta il punto di riferimento per il sostentamento di poco meno della metà della popolazione tollegnese, più di 200 soci e parenti a carico. E se realmente quella lista risale ai primi anni 40 tra quegli associati c’era un certo Giacomo Janno che era nella società da più di cinquant’anni, anzi l’aveva vista nascere perché era stato uno dei primi venti.
E’ invece datato il contratto d’appalto che venne stipulato il primo luglio 1941 tra l’amministrazione della cooperativa e i panettieri Pietro Tamaroglio e Giorgio Zorzi.
che sono vecchie conoscenze, infatti erano i medesimi panificatori già in forza alla ‘Cavour’ nel biennio 1922-23. Il Tamaroglio poi era il veterano dei prestinai della cooperativa: era già in attività ben prima del 1920 quando lavorava con tale Sebastiano Caroli, forse il suo maestro. Dopo tanti anni di fidato servizio i due artigiani raggiunsero quindi un grado di libertà maggiore pur rimanendo strettamente vincolati ai dettami contrattuali. L’appalto si sarebbe esteso per tre anni, cioè fino luglio del 1944 e sarebbe costato ai panettieri 1500 lire all’anno, oltre ad una cauzione primaria di altre 1000 lire. Un paio di articoli di quel contratto sono importanti per comprendere alcuni fatti ad esso successivi. Il secondo punto recita: “…Sono a carico dell’appaltatore la forza motrice e la luce elettrica, e per quest’ultima, se manca, gli appaltatori dovranno anche provvedere all’impianto del contatore e all’adattamento dell’impianto stesso…”. A quanto credo di aver capito dalla documentazione la luce elettrica era già stata portata nei locali ma l’articolo non è superfluo perché era il forno che funzionava ancora probabilmente a legna. Eppure, sempre stando ai documenti, non furono loro gli appaltatori che si sobbarcarono la spesa dell’elettrificazione del forno ma qualcuno che li sostituì poco dopo come vedremo. Sei mesi dopo questo contratto ne venne scritto un altro, d’affitto. Nel breve periodo intercorso la partecipazione dello Zorzi era venuta meno ma non si sa se per cessazione dell’attività o decesso. Sta di fatto che il Tamaroglio teneva duro e gli si affiancò Giuseppe Cinguino, sicuramente più giovane, con cui firmò il documento del 30 dicembre dove curiosamente si descrivono le varie forme e i pesi dei pani e dei grissini prodotti, il loro prezzo al dettaglio, ossia ridotto mediamente di 20 centesimi rispetto alla normale vendita al minuto, riservato ovviamente ed esclusivamente ai soci della cooperativa. Ciò significa che contrariamente a quanto era avvenuto in precedenza, o almeno in origine, lo spaccio della ‘Cavour’ era di fatto un negozio di libero commercio e non più un magazzino sociale. Ce lo conferma l’articolo terzo che precisa come “…I Signori Cinguino e Tamaroglio con la presente scrittura si impegnano di fornire i prodotti del forno, da loro affittato, alla Cooperativa Camillo Cavour con precedenza assoluta su altri eventuali loro clienti…”. Forse nella narrazione di queste ultime vicende mi sono scordato di ricordare, ai più giovani, che quelli erano anni di guerra e di difficoltà anche per chi non combatteva. A rinfrescare la memoria ci pensa proprio un documento del marzo 1943. I due affittuari avevano chiesto all’amministrazione della cooperativa di poter aumentare il prezzo del pane fornito alla cooperativa: la risposta fu “…il pane che voi fornirete al nostro spaccio ci dovrà essere fatturato al prezzo di L. 0,12 in meno del prezzo di vendita al consumatore, e cioè vi abbiamo concesso un aumento di cent. tre sul prezzo di fatturazione, in deroga a quanto convenuto…e avrà la durata per tutto il periodo bellico…”. I soci avevano rinunciato in parte ad un loro privilegio per andare incontro ai problemi che comunque anche i panettieri vivevano in tempo di guerra. Si nota da queste carte come il forno fosse ormai divenuto una entità separata dalla società (che ne rimaneva comunque proprietaria) e lo spaccio della cooperativa era divenuto solo uno dei clienti, sebbene rimanesse speciale per convenzione.
Tale forno diviene il protagonista delle vicende della cooperativa per quegli anni ma proprio ad interrompere questa egemonia documentaria ci è giunta una semplice denuncia d’esercizio all’INAIL fascista. E’ della fine di aprile del ’42 e ci dice qualcosa su quello che si sarebbe visto nei locali dello spaccio. Al numero 68 di via Umberto c’era “…energia elettrica trifase a 260 volta…”, che alimentava un montacarichi, un frigorifero, una macina per il caffè e di un compressore che serviva “…per dare il vino alla ribalta di vendita…”. Si vendevano petrolio ed alcol denaturato conservati in appositi contenitori (il secondo fino ad un massimo di 500 litri), si potevano acquistare diversi generi di alimenti e i dipendenti che dovevano spostarsi per servizio utilizzavano esclusivamente la bicicletta. Nella denuncia si evidenzia che il personale impiegato era di 4 unità, due maschi di cui uno apprendista e due femmine, che non lavoravano a cottimo, che non ricevevano salari in natura e che percepivano mensilmente la loro paga. Alla cooperativa il loro stipendio complessivo costava 1273 lire al mese.
Il più giovane dei due conduttori del forno, Giuseppe Cinguino, tornò a far presente con toni più che espliciti lo stato di guerra agli amministratori della società. Quando scrisse quelle righe l’Italia stava vivendo il momento forse peggiore di tutta la sua infausta avventura bellica, ad un mese dall’armistizio e in piena crisi d’identità nazionale. Era il 15 ottobre 1943. “…Le condizioni fissate dal contratto d’affitto…non possono più mettere in grado il conduttore del forno di avere un guadagno anche minimo dato l’attuale elevato costo delle farine e del combustibile (entrambi a suo carico per contratto) in ragione del prezzo del pane…”. La proposta del Cinguino fu lo specchio di una situazione seria: fornitura del pane a 0,10 lire in meno del prezzo normale e concessione gratuita del forno e degli attrezzi, fino alla fine della guerra. Non e dato a sapersi come andarono le cose ma tutto considerato il giovane Giuseppe passò il brutto momento, forse aiutato anche in quel frangente dalla cooperativa.
Ci avviciniamo alla conclusione di questa breve storia. Non voglio proseguire di molto perché ormai la documentazione pervenutaci va esaurendosi, appena dopo la guerra, e perché fortunatamente c’è ancora in paese chi può raccontare le vicende successive meglio di quanto possa farlo io seguendo le carte.
Nel giugno del 1944 lo spaccio cooperativo venne affidato a Oreste Carecchio che ne fu gestore fino al marzo del 1947. Col suo titolo di assuntore il Carecchio aveva anche la particolare mansione di addetto alla pesatura pubblica per la quale gli veniva corrisposta una indennità di 50 lire al mese. L’amministrazione gli aveva poi esplicitamente permesso di fare credito ai clienti, ma solo se si trattava di soci della ‘Cavour’. Alla sua cessazione fu rimpiazzato da Clelia Girotto nata Giachetti. In quel contratto del 18 aprile 1947 si legge che la signora Girotto avrebbe dovuto sborsare una cauzione di 50000 lire per prendere in gestione lo spaccio; ad esse vanno aggiunte 400 lire al mese di affitto per le quattro camere di alloggio da lei occupate sopra la cooperativa. Il guadagno della gestrice originava dalle provvigioni ritenute sulle merci in vendita: “…1% sugli incassi per vendita di pane-zucchero e caffè…2% per vendita di grissini in genere-burro-farina di grano e di granoturco…2,5% su tutte le altre merci, salvo diverse condizioni per forniture speciali…” e seconda l’amministrazione societaria “…annualmente l’assuntrice Girotto Clelia percepirà di provvigioni sulle vendite la somma di Lire 180.000…”.
Degli anni successivi fino al 1948 rimangono soltanto i registri contabili del negozio e i prospetti finanziari della società. In quello del 1944 si segnalano alla voce riguardante il capitale sociale un totale di 206 azioni da 200 lire, ovvero 206 soci.
Le ultime notizie ce le forniscono una serie di fogli sciolti che ci informano di come la società fece eseguire lavori sul forno nell’ultimo ’45 e nei primi mesi del 1946. Si tratta dell’impianto di elettrificazione del forno, a conferma del fatto che prima funzionava a legna, eseguito con materiale acquistato dalla ditta Artorige Bullio e consegnata alla cooperativa da tale Vincenzo Novach per un importo di poco inferiore alle 50 mila lire, interamente coperto con un prestito contratto verso Michele Comerro, che in quell’annata era presidente. L’impresa dell’elettrificazione del vecchio forno venne così definita nell’adunanza del 6 giugno 1946 dal segretario Ubertalli. “…un affare spinoso e disgraziato…”, in riferimento ai grossi problemi derivanti dal fatto che “…la difettosa costruzione del forno in muratura non permetterebbe mai una economia nell’energia elettrica, oggi assai cara,…”
Una società che dopo la guerra pareva in ottima salute… Ebbene non era proprio così. Certo nuove spese per ammodernare i macchinari del forno, ma la spinta ideale della società sembra essere venuta meno dopo le difficoltà belliche. Non sono io a trarre queste conclusioni, che sembrano fare a pugni con quanto di onorevole e costruttivo ha raccontato fino ad ora, ma il presidente della cooperativa che rivolge un discorso pieno di tristezza e di rabbia alla adunanza generale che si tenne nei primi giorni del 1947. Le notizie che si apprendono dalla lunga relazione del presidente Antonio Fiorina gettano una luce nuova, meno gradevole, sul periodo subito successivo alla Liberazione. E’ la voce di un vecchio socio che ritorna ad esercitare una carica che aveva già ricoperto prima della guerra, è una carrellata di circostanziate piccole e grandi mancanze societarie, dove sotto accusa sono sempre e solo i soci e l’amministrazione che lui torna a presiedere nell’aprile del 1946. E’ forse una conclusione indegna per questa storia ma di certo storicamente più corretta che non un retorico lieto fine, anche se alla chiusa della ramanzina il Fiorina non nasconde che la gestione (la sua) di quei nove mesi avevano già ridato slancio alla società. Ecco alcuni passi della requisitoria: “…Mi compiaccio che in questa adunanza il numero dei soci intervenuti sia abbastanza numeroso; la maggioranza brilla però per la sua assenza, e questo assenteismo va biasimato…Vi prego di seguiri attentamente nella mia relazione che si basa essenzialmente su dati e cifre indiscutibili;…” e rivolto alla cooperativa in quanto tale, “…alla fine di dicembre del 1939 le sue condizioni erano eccellenti, il magazzino ben rifornito e liquido più che sufficiente per far fronte ai fabbisogni della società. Col mio ritorno nell’Amministrazione nell’aprile del 1946 le condizioni della cooperativa erano disastrose: magazzino vuoto e cassa sprovvisto di liquido. La vendita del vino ferma da alcuni mesi e quella delle altre merci ridotta ai minimi termini. In cantina erano 25 brente di vino invendibile e diverse brente d’aceto da buttar via. Il forno elettrificato e per quale si era spesa una somma non indifferente, in condizioni di non poter funzionare e con uno spreco di energia elettrica assai rilevante (si riferiva probabilmente alle difficoltà incontrate col primo impianto della ditta Bullio che aveva messo a nudo l’incompatibilità della muratura con il sistema elettrico. Il forno venne poi addirittura venduto negli anni ’50)…”. Le cose cominciano a migliorare da ottobre anche se il bilancio di settembre, chiuso a giugno, indicava una passività di 116 mila lire. A suo merito il presidente conclude : “…Basti pensare che il deficit del primo semestre e stato colmato e che il mutuo che il Signor[1] … aveva contratto, senza alcuna autorizzazione e quindi illegalmente, verso se stesso è stato liquidato…”, che il negozio ‘girava’ di nuovo e che il forno sempre gestito da Giuseppe Cinguino produceva in misura confortante pani e grissini.
Ricordo che molte persone importanti, sotto vari punti di vista, ebbero l’affiliazione onoraria o benemerita alla società cooperativa ‘Cavour’. Un bell’espositore ancora visibile appeso alle pareti della Biblioteca ci tramanda i nomi dei cavalieri Carlo Sella, Lodovico Rosazza, Carlo Agostinetti, Alfredo Sunder, del commendatore Daniele Schneider, di molti medici, dell’avvocato Prospero Bertetti, del notaio Cesare Craveja e di tanti altri personaggi notissimi nella vita tollegnese dei primi cinquant’anni del Novecento.
E qui chiudo lasciando che chi visse in quei tempi aggiunga quanto manca.
Danilo Craveia
[1] Ho omesso il nome per evitare qualunque imbarazzo agli eredi.